Amicizie, corone d'alloro e polemiche
Conobbi Mario Luzi a Messina, dove venne a ritirare il premio Vann'Antò nel 1983, e lo rividi subito dopo a Urbino, nella cui università allora studiavo e lui insegnava. Da allora, sino alla morte del poeta novantenne, il rapporto fu sempre vivificato da incontri avvenuti in ogni parte d'Italia – da Palermo a Milano, in occasione perlopiù di premi e convegni, ma pure di mie visite in casa sua a Firenze – oltre che ovviamente da una costante frequentazione intellettuale e da uno scambio epistolare non fitto ma comunque intenso.
La lettera spedita da Firenze il 21 novembre 1990 – pubblicata nell'edizione nazionale delle pagine culturali del quotidiano “la Repubblica” il 28 febbraio 2006 grazie anche alla gentile disponibilità del figlio del poeta Gianni Luzi – è la più significativa per partecipazione spirituale tra quelle dell'amico e maestro fiorentino conservate nel mio archivio. Gli avevo mandato un articolo in cui, prendendo spunto dall'assegnazione del premio Nobel quell'anno al poeta messicano Octavio Paz, spiegavo perché la sua candidatura, peraltro già più volte avanzata senza successo, fosse l'unica valida a rappresentare degnamente la cultura italiana in vista della futura attribuzione del massimo alloro letterario ( Octavio Paz e gli italiani , in “Gazzetta del Sud”, 20 ottobre 1990).
Il poeta mi rispose, passando frattanto dal lei al tu, senza nascondere la propria amarezza per questo Nobel sfuggito e sfuggente, confortato, tuttavia, dal fatto che «l'elenco dei grandi esclusi dal premio è di gran lunga più luminoso di quello degli autori insigniti» per «l'imprevedibilità del criterio» adottato dai giudici svedesi. Benché fosse stato per ben sette volte di seguito segnalato dall'Accademia nazionale dei Lincei, che assieme al Ministero dei Beni culturali è l'unico organismo ufficiale riconosciuto dal comitato del Nobel per presentare le candidature italiane, Mario Luzi non riuscì a eguagliare l'impresa di Carducci (1906), Deledda (1926), Pirandello (1934), Quasimodo (1959) e Montale (1975). Nel 1987, pur essendo il più accredito, venne battuto sul filo di lana da Iosif Brodskij. Otto anni più tardi fu dato tra i favoriti, con Saramago e Vargas Llosa, ma poi venne fuori a sorpresa come vincitore l'irlandese Seamus Heaney. E non mancarono le polemiche: l'antico “rivale” Brodskij disse che il poeta italiano smaniava per avere il Nobel. Ci fu anche chi rivelò che il boicottaggio di Luzi era da attribuire a “incidenti diplomatici” tra la Farnesina e l'Accademia Reale di Svezia. Luzi replicò che si trattava solamente di una “vicenda penosa”.
Infine, nel 1997, quando i giudici di Stoccolma si decisero di assegnare l'ambìto riconoscimento a un italiano – il che avviene, in media, ogni quindici-vent'anni – la scelta cadde, come si sa, su Dario Fo facendo così venir meno ogni speranza per l'ormai anziano poeta fiorentino. In compenso Mario Luzi, qualche mese prima di morire, ebbe l'onore di essere nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, un traguardo per un poeta italiano condiviso finora solo con il Nobel Eugenio Montale.
Alla fine della lettera l'amarezza del poeta va stemperandosi in una confessione accorata, che mette a nudo la natura essenziale dell'uomo Luzi mentre ritorna, come un leit-motiv ricorrente in tutto il carteggio, la memoria struggente degli incontri passati: «(…) In questi anni ho avuto una intensa stagione di lavoro. Si sono fatti anche più libri di quelli che io ho veramente scritto: ricuperi, antologie, ristampe. Ma il bello della vita – se ancora ne rimane un po' – sarebbe avere almeno una parte del tempo tutta mia, assecondare il mio ritmo nel silenzio e nel colloquio. E invece mi sento oggetto di violenza continua. Ricordo alcune passeggiate fatte con te in Sicilia o a Urbino: quei pochi istanti erano questi, valevano molto. Ti mando un caro saluto, il tuo Mario Luzi». |